A cura di Benino Argentieri (Specializzando IPR) e Antonella Ciurlia (Psicoterapeuta e didatta IPR)
Storia di un matrimonio, del regista Noah Baumbach, racconta di Charlie (Adam Driver) e Nicole (Scarlett Johansson), sposi e colleghi a New York: lui è un regista e lei un’attrice. Il film comincia con una descrizione dei pregi che ogni coniuge fa dell’altro e ci sembra di sentire una coppia qualsiasi al culmine dell’innamoramento.
Invece presto scopriamo che quei ritratti luminosi sono in realtà lettere che il mediatore di coppia ha consigliato loro di scrivere per poterle leggere reciprocamente nel processo di separazione in corso. Il film prende, dunque, una direzione totalmente diversa dalle aspettative iniziali.
Nicole e Charlie hanno un figlio piccolo e la loro separazione, come spesso accade, diventa una battaglia per l’affidamento. La madre si sposta a Los Angeles e questo implica un innalzamento della tensione. La coppia si rivolge a due avvocati divorzisti, nonostante si fossero ripromessi di fare senza. L’entrata in scena dei legali coincide con l’esplosione della forza distruttiva che un divorzio può innescare. I punti deboli dell’altro vengono usati a proprio vantaggio e se la logica è “uno dei due deve vincere”, entrambi ne escono inesorabilmente sconfitti.
Interessante è quanto avviene tra Nicole e l’avvocato da lei scelto, Nora Franshow (Laura Dern, qui premio Oscar per Miglior attrice non protagonista). Entrambe sono donne, professioniste in un mondo nel quale esiste il gender gap, separate e con figlio. Le loro storie si assomigliano così tanto da impedire a Nora di sentire le reali esigenze della sua cliente. Questo ci ricorda, per assonanza, il rischio che anche il terapeuta può correre quando le storie dei pazienti toccano le sue corde più sensibili, i suoi stessi nodi irrisolti.
Il regista racconta la storia senza schierarsi: fa parlare sia l’una che l’altro della coppia, mostra punti di forza e di debolezza di entrambi e, in questo, si avvicina moltissimo al delicato movimento “neutrale” del terapeuta che deve sapere accogliere tanto la moglie quanto il marito.
È su questa oscillazione che il film mescola tratti drammatici a quelli della commedia: nella stessa scena sentiamo la crudezza del realismo e il lirismo dell’opera cinematografica. Ecco perché le urla frustrate di Nicole alla madre “Smettila di amare Charlie!” fanno ridere di una risata amara. Ci verrebbe da chiedere come mai Nicole fa questa richiesta alla madre. La rescissione del legame coniugale deve annullare tutto? Cosa si può salvare in un amore finito?
Spesso ci raccontiamo che ci separiamo perché non amiamo più, che avremmo dovuto farlo anni prima, che abbiamo fatto uno sbaglio a sposarci. Nel doloroso e complesso processo di separazione legale e ridefinizione della relazione sembra più semplice ridurre tutto ad una dicotomia: io-tu, sempre-mai, giusto-sbagliato. Ma questa riduzione che storia ci racconta?
Gli avvocati nel film parlano esplicitamente di rinarrare la storia per far vincere il loro assistito; ebbene, questo è possibile farlo anche avendo come obiettivo il benessere dei due partner. Come terapeuti sistemici sappiamo che vedendo la stessa vicenda con occhi diversi possiamo permetterci di uscire dalla palude che ci blocca, perché per ogni evento osservato sono molteplici le narrazioni e i significati che possiamo co-costruire.
In fondo possiamo passarla nel tritacarne legale del divorzio, sconvolgerla di passione o sbatterle la porta in faccia ma una relazione non può mai essere completamente ridotta a una etichetta (sposato, divorziato, separato, ecc.). Dalle relazioni si entra e si esce ma di esse resta inevitabilmente traccia dentro di noi; di relazioni siamo fatti e saranno parte di noi per sempre e persino da prima che, consapevoli o colti di sorpresa, ci ritroviamo a farne parte.
Il regista ha dichiarato: “Voglio essere capace di raccontare che la fine non è un fallimento”. Noi possiamo aggiungere che la parola “fine” è questione di punteggiatura ed è piuttosto un altro passaggio, un altro degli infiniti cambiamenti che potremo sperimentare nella vita.
Si tratta di un film doloroso ma allo stesso tempo realista, che apre alla consapevolezza del potere che i partner hanno di cambiare la propria vita senza farsi necessariamente del male. Un film che richiama la sfida del lavoro terapeutico con le coppie in via di separazione e che hanno figli, ossia il rilancio del patto genitoriale, grazie al quale l’amore per quello che si è stati e per quello che si è creato possa avere il sopravvento sul dolore e la disperazione per la perdita del legame coniugale e per la separazione da quella parte di sè che si è investita nella relazione di coppia.