A cura di Antonella Ciurlia (Psicoterapeuta e Didatta IPR)

Due storie, due famiglie, due contesti socioculturali diversi, un’età comune, un disagio trasversale…vorrei partire in questa riflessione dalle emozioni che la visione dei due film ha suscitato in me: un misto di rabbia, impotenza, senso di ingiustizia, confusione, paura, tristezza, angoscia.

Emozioni che ho sentito l’urgenza di tradurre in parole e pensieri…

La narrazione di “Adolescence” mette il focus sull’autore di reato e la sua famiglia che si confronta con il dramma di accettare l’immagine del proprio figlio “carnefice” . “Il ragazzo dai pantaloni rosa” ci consegna il punto di vista della vittima e della sua famiglia che scopre, solo dopo la morte del proprio figlio, il dramma sconosciuto che c’è dietro.

Un elemento comune è il ruolo dei social nelle dinamiche giovanili e nella funzione di amplificatore e conduttore di violenza, stigmatizzazione, ideologie estremiste.

In entrambe le produzioni il ruolo della scuola assolutamente sullo sfondo, incapace di intercettare il malessere che serpeggia, ignaro della vita parellela che i propri studenti vivono nei corridoi, nei bagni, sulle piattaforme.  La parolaccia, punita con la nota e il richiamo ai genitori, non accende una lampadina sul perché un ragazzo studioso e educato ha necessità di mostrarsi ribelle e sfrontato, con ogni probabilità per strapparsi di dosso quell’immagine che lo condanna alla diversità e all’esclusione. Una scuola, in Adolescence, totalmente incapace di sintonizzarsi con i ragazzi e in difficoltà nel contenere i comportamenti disfunzionali.

E poi, il faro puntato sulle famiglie e sulla difficoltà e impossibilità di accedere al mondo più profondo dei figli. Ragazzi chiusi nel loro disagio e nella loro solitudine, porte chiuse al dialogo e al confronto, volti angelici e sorridenti che mascherano il dramma che si consuma internamente. Genitori che arrivano troppo tardi a comprendere o, soltanto, conoscere. La prima reazione è di sgomento, disorientamento, negazione, paura. Poi i sensi di colpa… cosa avrei potuto fare di più…dove abbiamo sbagliato…cosa ho sottovalutato…domande senza risposta nel baratro del dolore e della paura.  E il percorso lungo e doloroso per provare a dare senso. La necessità di immaginare una vita che va avanti nonostante tutto, e di individuare una possibile strada che consenta di arginare le emozioni strazianti e che dia significato al continuo e implacabile fluire della vita.

In ultimo i protagonisti, due volti adorabili, dai lineamenti delicati e dagli occhi profondi e spauriti. Le foto di un’infanzia che parlava di sogni, speranze, gioia e condivisione. Poi il bosco fitto in cui la luce fa fatica a penetrare, dove i riferimenti diventano i coetanei anche loro con un profondo disagio, dove i social diventano il luogo in cui cercare risposte e conferme. Il bisogno di continuare a rassicurare la propria famiglia quando le cose in realtà fanno schifo. Il passaggio all’atto come movimento estremo e disperato, l’unico considerato possibile, per dare risposta alle istanze più profonde nell’aggressione verso l’altro e verso se stessi.

Due film che ci fanno riflettere, che ci costringono a sospendere il giudizio, perché trovare il capro espiatorio può forse placare il senso di colpa, ma in verità non serve a nulla.

Due film che devono insegnarci che si può e si deve fare di più insieme, che la delega della crescita dei nostri ragazzi non funziona, è solo con la collaborazione tra le istituzioni, con l’apertura di spazi di confronto e di dialogo, con l’ascolto e l’osservazione, con l’educazione all’utilizzo dei social che si può provare a prevenire simili tragedie, che si possono sconfiggere assurde premesse, insegnando ad esempio a chiedere aiuto, favorendo il superamento della vergogna e l’idea che chi chiede aiuto è un debole!